Crisanti, Einaudi e lo statalismo: osservazioni di una vigilia di Natale


24 dicembre 2025

Molti in Italia in questi giorni avranno sentito almeno parte del discorso fatto in Parlamento dall’Onorevole Andrea Crisanti. La parte che è passata a livello mediatico è quella in cui vengono snocciolati anche alcuni dati impietosi sulla incapacità del sistema italiano di generare università di livello globale. Ciò a differenza di quanto capita soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, due Paesi molto diversi per dimensione e collocazione geografica, ma accomunati da una comune matrice anglo-sassone, ossia da un certo modo di vedere e regolare la realtà.

Fino a pochi mesi fa prestavo servizio presso l’Università di Torino. Uno dei vantaggi di quella posizione era la possibilità di passare quasi ogni giorno davanti alla statua di un vero gigante della politica e cultura italiane, Luigi Einaudi. Un sofisticato osservatore della realtà e, in particolare, anche del mondo accademico, che ci ha regalato delle pagine attualissime.

Non ho mai fatto una ricerca economica o sociologica sull’università italiana. Semplicemente, ne sono stato prima un fruitore, come studente, e adesso un modesto attore. Tra le due esperienze una lunga, ultra-ventennale, esperienza nel Regno Unito e nelle loro società, culture, mondo accademico. In quest’ultimo, ancora una volta come studente e poi come docente e ricercatore.

Le mie osservazioni si basano quindi sull’esperienza diretta, quella di un soggetto che, sebbene non sia di certo expert, può dire di sè di essere almeno learned. La mia esperienza multiforme, assistita da un’osservazione continua, penso mi abbia insegnato qualcosa.

Qual è la ragione (se una dovesse esserne identificata) di questa incapacità dell’università italiana di essere leader? (NB: il problema non è di certo non essere nei primi posti in classifica, ma, in genere, l’inabilità di produrre in maniera costante eccellenza.)

Einaudi e la mia esperienza mi dicono che la ragione del malessere profondo dell’università italiana (e, come suggerirò, non solo di quella) sta nel centralismo che nella nostra cultura si declina in varie direzioni: statalista, geografico, normativo.

Qui da noi si parla di “sistema universitario italiano”, non come di una descrizione o un risultato, ma di un sistema normativo-istituzionale complesso, piramidale, dove le direzioni prime e ultime provengono dall’alto, dallo Stato accentratore. Se spazi si autonomia ci sono, sono ritagliati e concessi dall’alto. In poche parole, la situazione di partenza, o di default come dicono gli anglo-sassoni, è lo standard uniforme determinato centralmente dal Ministero e dallo Stato e valido, pressocchè senza eccezioni, su tutto il territorio nazionale (quasi non esistessero differenze oggettive e particolarità lungo lo stivale).

Da questo approccio politico-culturale il centralismo assume vari declinazioni: è certamente statalista (il vero problema), è istituzional-normativo e anche geografico (ambedue conseguenze del primo). E’, in ultima analisi, ideologico.

Leggendo Einaudi, ed in particolare le sue “Prediche Inutili”, sarei tentato (e lo sono sempre più con il passare degli anni e delle esperienze) a ritenere che il peccato originale stia nell’istituto del valore legale dei titoli rilasciati dalle università italiane. L’ufficialità dei titoli universitari, che rende tutti uguali nei concorsi pubblici, richiede il controllo stretto da parte dello Stato, richiede l’uniformità. Da lí discendono tutte le altre sfaccettature dello statalismo.

Se il prodotto principale dell’università è ufficiale e uniforme, così devono esserne anche le strutture istituzionali e normative, i contenuti e la struttura dei corsi di laurea, la meticolosa organizzazione di tutto il sapere scientifico in gruppi disciplinari ben delineati, il reclutamento e la progressione delle carriere. Da ultimo, l’inserimento di questo sistema nel mondo del diritto pubblico e amministrativo italiani, di matrice (non è un caso) francese e tedesca, rafforzano tali tendenze centralizzanti.

Il risultato è un sistema monolitico asfissiante, incentrato sul controllo e non sulla libertà, dove uno standard uniforme viene imposto – a tutti i livelli – sulla realtà.

Diverso è l’approccio che magnifica la società (o, con altra accezione, il mercato), l’iniziativa e l’innovazione (che non vengono dalle strutture amministrative), e si limita a dare direttive di massima e ad intervenire soltanto dove ci siano evidenti lacune o falle (determinate sulla base di obiettivi largamente condivisi). Quest’altro sistema è quello che prevale nel mondo anglo-sassone. Certamente, con importanti varianti tra ad esempio gli Stati Uniti e il Regno Unito. Ma quella è la matrice, la mentalità.

Un collega inglese o americano sarebbe sconvolto e stranito se gli venissero spiegati i bizantinismi del reclutamento e dei concorsi italiani. E l’assenza di un sistema di promozioni interno slegato dalle assunzioni sul mercato, quell’assenza che genera lotte interne, una vera ‘guerra dei poveri’, dove la tua vittoria è la mia sconfitta: uno zero-sum game che è vera garanzia di un ambiente di lavoro continuamente belligerante e tossico.

Come dicevo, la mia impressione da learned observer è che questo male del centralismo trovi soltanto una sua esemplificazione nel mondo universitario, ma si possa applicare a tantissimi altri aspetti della storia e della cultura italiane.

Per avversione convinta (una volta si diceva ideologica), per path-dependency, per storia (da dominatori per migliaia di anni, a, prima dell’Unità, dominati per secoli) o per altre innumerevoli ragioni, gli italiani e le italiane sono in fondo in fondo sospettosi delle iniziative che vengono dalla società e dal mercato. Sono sospettosi dei successi troppo marcati e rifiutano gli insuccessi netti (invece, nella realtà sociale, come nella vita individuale, si nasce, cresce, vive e muore).

Lo Stato conquista e governa – deve conquistare e governare – tutto. E, punto importante, il governo deve produrre un unico standard nazionale che, fatalmente (almeno questa è la mia persuasione) non rispetta e accompagna le diverse esigenze e tendenze della realtà ma si impone su di essa. Da questo punto di vista, quindi, lo statalismo è anche ideologico nella misura in cui l’idea determina e imprigiona la realtà, non è riflesso dalla stessa.

Strani questi pensieri la Vigilia di Natale!

Speriamo che questo periodo porti un vero cambiamento, a beneficio di tutti e tutte.